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la geografia del cervello.... Nuova Fisiognamia?

Il Manifesto (Mattia della Rocca)

Il Manifesto - Mattia della Rocca

NEUROSCIENZE

Il progetto di ricerca statunitense per disegnare la geografia del cervello alimenta il rischio di rafforzare una visione meccanicistica dell'attività cognitiva

Davanti alla sfida posta dalle demenze e dai disturbi degenerativi del sistema nervoso centrale, prima tra tutte la malattia di Alzheimer, la scelta dell'amministrazione Obama di investire nella ricerca sul cervello 100 milioni di dollari nel solo 2014 (la stima dei costi per il prossimo decennio ammonta a circa 300 milioni annui) non può che apparire come un'iniziativa importante e significativa (e così la decisione analoga presa dall'Unione Europea, che ha recentemente annunciato di voler investire nello stesso periodo 1,2 miliardi di euro in un programma di simulazione computerizzata del cervello umano).
Ispirato al «Progetto Genoma Umano», che condusse alla mappatura completa del Dna della specie umana, la Brain Initiative - questo il nome della «Great Challenge» presentata dal presidente statunitense il 2 Aprile scorso - si pone come obiettivo quello di definire una geografia minuziosa del cervello umano, che tracci le connessioni in tempo reale tra aree neurali.
Un rinascente riduzionismo Oltre a constatare, in termini generali, come questo sia per un governo un investimento decisamente migliore dell'acquisto di aerei da guerra obsoleti, vi sono pochi dubbi sul fatto che questo progetto decennale porterà frutti importanti in termini di conoscenze di base e ricadute applicative, in primo luogo terapeutiche e farmacologiche.
Alla luce della storia della scienza tuttavia, la decisione di puntare tutto sulla «mappatura del cervello» (mentre negli Stati Uniti l'amministrazione Obama è responsabile di ingenti tagli ai finanziamenti della ricerca umanistica, come denunciato da Martha Nussbaum nel suo Non per Profitto , pubblicato in Italia da Il Mulino) solleva una serie di problematiche rilevanti, che rischiano di tradursi in cambiamenti significativi nel modo in cui la società considera l'identità mente/cervello, anche da un punto di vista pratico, specificatamente sanitario.
Si prenda, ad esempio, la dichiarazione di Tom Insel, direttore del National Institute of Mental Health, che alla fine dello scorso Aprile ha dichiarato il prossimo abbandono dei criteri diagnostici tradizionali in favore di un approccio basato principalmente sui marker biologici e sulle evidenze sperimentali provenienti dalle neuroscienze.
Seguendo questo trend, il disagio mentale non esisterà più - e non sarà più diagnosticato né trattato, in linea teorica - se non sarà possibile trovare nel sistema nervoso un segno organico certo e generalizzabile dell'alterazione a cui conduce.
È questa una presa di distanza storica dell'Istituto Federale per la Salute Mentale dai canoni della psichiatria occidentale (per certi versi auspicata e auspicabile, poiché mette in crisi l'impianto nosografico sui generis dei famigerati manuali di diagnostica mentale, come il Dsm-IV): eppure, la ricerca esclusiva di dati «oggettivi» non dovrebbe essere salutata a scatola chiusa come la nuova speranza per un reale progresso scientifico, né tantomeno considerata come una scelta «neutrale».
Al contrario, essa dovrebbe essere valutata criticamente alla luce dell'epistemologia di cui si fa foriera.
Dietro al «distacco dell'osservatore» si celano errori e pregiudizi che, proprio come quelli che hanno caratterizzato il potere psichiatrico, rischiano di essere altrettanto pericolosi.
È utile e possibile, certamente, legare le basi cerebrali della cognizione ai comportamenti e alle funzioni osservabili nell'uomo e negli altri animali.
Allo stesso tempo però, è necessaria grande cautela prima di definire, sulla base della neurobiologia, una relazione univoca e costante tra aree cerebrali e fenomeni mentali.
I tentativi di localizzare la mente nel sistema nervoso costituiscono le occorrenze di una storia vasta ed eterogenea, ma caratterizzata da un entusiasmo incontrollato ogni volta che i progressi scientifici in merito sembravano fornire al sistema economico, politico e culturale una chiave per accedere «oggettivamente» ai segreti della psiche, in accordo con la Weltanschauung del periodo.
Menti imperiali La frenologia di Gall, alla fine del XVII secolo, cullò gli illuministi nella convinzione di poter distinguere tra «menti primitive» e «sviluppate» sulla base dei meri tratti somatici; nel 1861 il medico e antropologo Paul Broca, stabilendo con precisione l'area sede del linguaggio articolato, offrì alla cultura francese un saldo presupposto per l'indagine positivistica dell'uomo; e così i neurologi inglesi che la storica Carmela Morabito denominò i «cartografi del cervello» disegnarono, all'apice dell'egemonia dell'Impero Britannico, una mappa della mente che competeva in ambizione con quelle tracciate dagli esploratori dei domini della corona.
Fatta salva l'importanza che ognuna di queste teorie ebbe nella definizione dei paradigmi scientifici attuali, rimane la necessità di considerarle dal punto di vista di un'analisi storica che - nel solco del pensiero di Canguilhem e Foucault - non prescinda da quella dei rapporti di potere, non fosse che per evitare la ripetizione, come avvenuto per modelli economici e sociali ormai rivelatisi del tutto fallimentari, degli errori che la scienza occidentale ha già avuto modo di conoscere, ben oltre il confine convenzionale dell'età moderna.
In particolare, un caso deve essere sottolineato, per la particolare analogia che presenta con le criticità del progetto Brain .
Nei primi anni '30 del XX secolo, il regime culturale staliniano onorava Ivan Pavlov e il suo sogno di poter predire (e controllare) in maniera quasi automatica il comportamento dei viventi tramite il condizionamento: nel fare questo, esso convalidava un modello riduzionista della mente, in cui la cognizione era immaginata come un agglomerato di riflessi, regolato da una vera e propria «meccanica psicologica», che aspettava solo nuove tecnologie e metodi di indagine per essere compresa a tutto tondo.
L'idea fu ripresa negli Stati Uniti del primo dopoguerra dall'approccio comportamentista, destinato a diventare il paradigma di riferimento della psicologia occidentale fino alla seconda metà del Novecento.
Ma mentre l'istituzione consacrava il paradigma riflessologico e l'opera di Pavlov, nella stessa Unione Sovietica degli anni '30, lo psicologo sovietico Lev Vygotskij e il suo allievo, il padre della neuropsicologia contemporanea Aleksandr Lurija, rileggevano la scienza della psiche alla luce del materialismo storico, della lotta di classe, della dimensione costitutivamente sociale e culturale dell'essere umano.
Ne emerse - quando negli anni Settanta del Novecento le idee dei due autori ebbero modo di circolare al di fuori delle accademie russe - un modello della mente e del cervello radicalmente nuovo e rivoluzionario, che abbandonava l'illusione di trovare una gerarchia statica delle funzioni cognitive nell'architettura fissa delle aree cerebrali, preferendo una visione che poteva tenere conto della plasticità del cervello, della sua capacità di riorganizzarsi in funzione delle necessità dell'organismo, e di svilupparsi in base agli stimoli dell'ambiente.
Nel caso specifico della nostra specie, un ambiente che è prima di ogni altra cosa un mondo storico.
Alla frustrazione di una neuropsicologia che cercava nella riduzione alla meccanica cellulare le risposte alle sue domande, Vygotskij e Lurija contrapposero la complessità di un articolato e interconnesso sistema funzionale, che non poteva essere spiegato dalle semplici leggi biologiche poiché trovava nel collettivo e nel condiviso le condizioni della sua possibilità.
Nonostante l'inclusione delle teorie psicologiche d'ispirazione marxista nel canone della propria storiografia, a un importante banco di prova quale è sicuramente la Brain Initiative , l'idea che il connubio cervello/mente possa essere «spiegato» come processo meccanicistico senza essere «compreso» nella sua dimensione storica sembra ancora dura a morire nelle istituzioni scientifiche contemporanee.
Cambio di metafore Cambiano i modelli di riferimento, certo, e non stupisce osservare come alla metafora della mente/algoritmo/catena di montaggio si sia sostituita quella della popolazione cellulare/ social network /produzione delocalizzata: eppure risuona nell'augurio di poter trovare «tecnologie più efficienti per monitorare l'attività di ancora più neuroni e a velocità ancora più alte» (come recita il fact sheet della Casa Bianca) l'antica concezione positivista e riduzionista, da sempre al cuore dell'epistemologia capitalista, che pensa di poter trovare la conoscenza nella costante aggiunta di nuovi dati a quelli esistenti, escludendo senza appello dall'analisi il contesto più ampio in cui i processi studiati si verificano.
Nel caso specifico del cervello, le istituzioni scientifiche occidentali continuano a coltivare il sogno di predire e controllare il comportamento e la cognizione umana, poggiando stavolta sulla presunta oggettività del dato biologico.
Si tratta di un bias ben noto alla filosofia della scienza e della mente, ma che di neutrale non ha davvero nulla.
Tradizionalmente, il sapere-potere cerca di costruire la norma dove regna l'anomalia, la semplicità dove è fondamentale la complessità.
Richiamando significativamente il pensiero di Primo Levi, il filosofo Alfonso Iacono nella nuova edizione del suo L'evento e l'osservatore , ricorda che dietro ogni semplificazione si nasconde il desiderio di stabilire un ordine rassicurante nel mondo che viviamo, ripetitivo perché ripetibile, fuori dalla storia collettiva dell'umanità e quella privata del singolo individuo.
Ma per raggiungere un insight significativo sul cervello e la mente umana la dimensione storico-culturale non può essere tagliata fuori, pena una conoscenza artificiosa di questi, completamente astratta, lontana dalla realtà biologica e da quella psicologica degli individui.
Davanti alla complessità di una mente che studia se stessa, l'errore di porsi in una prospettiva di presunta neutralità corre il rischio di tradursi in un abbaglio per la comunità scientifica, con conseguenze imprevedibili per la società globale in cui essa opera.
Le istituzioni politiche dovrebbero tenere conto della storia, nella definizione dei loro programmi di ricerca.
E i neuroscienziati, rileggere Marx.

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